LA FACCIA

Mia figlia si nasconde per piangere: vuole salvare la faccia.

Non riconosco la faccia delle clienti che frequentano il negozio dei miei genitori, dopo qualche anno di trattamenti da un  mago di iniezioni che esercita nei paraggi, in qualche studio oscuro e lussuosissimo: ma riconosco sempre l’osso affilato del naso come di un teschio, la pelle tesa verso le tempie, il sorriso che ti viene da scansare per paura di inciampare nel labbrone inferiore. Se fosse una legge dello Stato a obbligarle a questo, sarebbe da paragonare all’infibulazione.

La faccia della gente è fonte di scoperte continue, a guardarla. A volte mi lascio distrarre dalla borsetta viola, dal girovita a ciambella, dalle mutande che spuntano dai pantaloni a mezz’asta; e non dovrei, dovrei guardare in faccia. Ma appunto le distrazioni sono molte e forse sono volute: ce l’abbiamo più, una faccia?

Viaggio sui visi come sulla superficie dei sassi, come quando la mano scorre sulla corteccia di un faggio; viaggio negli occhi come su un muro macchiato di pioggia, come passi nelle foglie color zafferano di questi giorni. Non le ho mai sentite così vive.  L’incarnato è diafano attraverso i vetri del tram, gli occhi nascondono il loro colore. Vi sono occhi senza sguardo anche quando il colore è insolito e bellissimo: occhi dorati e vacui come quelli di un gufo in peluche, occhi azzurri e opachi come l’orlo colorato di certi piatti dozzinali. Guardo sempre gli occhi, ne ricordo il colore, il taglio, le ciglia. Talvolta sono così folte e arcuate da riflettere la luce. Potrei fare nomi.

Profili purissimi nascondono a volte una visione frontale desolante come un libro senza pagine. Mi fido dei volti se riesco a coglierli di sorpresa: scopro cose inaspettate, che le difese inevitabili per un attimo hanno rivelato.  Cogliere questi frammenti è come mettere una mano fuori dalla finestra quando piove: è raro che una goccia ti cada davvero nel palmo, ma vale la pena di provare comunque. L’ombra che scivola lungo una guancia, il mistero di un sorriso assorto, l’inarcarsi impercettibile di un sopracciglio durante la lettura di un libro o in una pausa della conversazione: non finisco di stupirmi per quel che possono rivelare i volti. E osservo il percorso delle rughe come i sentieri nelle mappe di montagna e il loro smuoversi lieve e rabbrividire – un cerchio nell’acqua, un movimento immaginato delle nuvole – mi sconcerta e ammalia e trasporta dritta sulla cima del monte, sul crinale dove meglio osservi il cielo. E il dito e lo sguardo le percorrono senza conoscere la strada, ma con la fiducia del viandante che ascolta il suo passo e il suono della via.

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