ODISSEO

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Non fosse che per il nostro letto, questo legno amico di cui conosco ogni venatura – e come ne luccica polita la grana -, non fosse che per questo dovrei sentirmi finalmente accolto, finalmente al termine, qui, alla fine di ogni cosa brutta e vile della mia vita.

L’odore di zolfo qui non giunge: non vi è anzi odore alcuno, salvo forse quello della polvere tra le pietre del pavimento, della lana tiepida, una traccia di cera, più un ricordo di miele che altro.

Vedo tele distese, altre ordinatamente ripiegate. Hai lavorato molto in mia assenza, dentro questa stanza e dentro la tua mente. Sono orgoglioso di te: i miei nemici erano perfettamente impreparati, abituati a sopraffarti – o così credevano – da molto tempo; tu invece sei sempre sfuggita loro, preservandoti intatta. Non credo sarei riuscito a fare di meglio. Sei così abituata a non fidarti, a mettere alle prova – così abituata al tuo ruolo di sentinella.

La trama prevede che io ora mi offenda e mostri rancore di fronte a questa mancanza di fiducia, e così faccio. Entrambi siamo seri in volto, attenti al ruolo, ma ci ridono gli occhi. Il riso, finalmente, quel riso, quel sorriso, quel divertimento che nessun racconto ha mai celebrato. Studio la punta delle dita, la curva dell’unghia. Queste tue mani hanno tessuto e tramato, atteso, sedotto. Bianche, fini, non sono tuttavia diverse dalle mie, per quello che hanno fatto. Come me hai conosciuto fedeltà e tradimento; non hai ucciso, ma tue sono le mani che mi hanno offerto lo strumento della morte, l’arco magnifico.

Non c’è rimorso in me come in te: ho desiderato la morte dei tuoi pretendenti quanto l’hai desiderata tu. Siamo giunti allo stesso desiderio attraversando vite opposte e anni lontani.

Le bocche livide dei vinti mordano la polvere nera, io e te possiamo avanzare nel sole per il tempo che ci resta. Saranno passi sereni, contati, goduti. Il passo che ho conosciuto per tanti anni, quello delle schiere in battaglia, dei compagni che riportano il morto steso sullo scudo, quello lo dimenticherò. E tu dimenticherai il passo apposta più lieve, il respiro trattenuto, la torcia silenziosa ma mai abbastanza che ti si accostava mentre disfacevi la tela tessuta di giorno, nelle veglie notturne, nell’angoscia della tua solitudine.

Io ancora devo ricordare il rumore dei remi ed il riverbero del sole sul mare. Non è ancora giunto per me il riposo ma le tue parole – il mio letto è qui, pronto, e mi accoglierà ogni volta che lo vorrò – queste tue parole scendono su di me come il favore degli dèi.

Di questo mio viaggio infinito mi pare di poter ricordare poco, infine. Il sangue scorre più lento e vecchio e appagato. Tutto ti ho narrato, senza omissioni, senza imbarazzi.

E il mio respiro, pure, ora è cauto, mansueto come quello di un campo estivo, come il sonno delle capre. Scivolo verso di te e sento la quiete giungere, adagiarsi come il simulacro del dio sull’altare, trascorrere come la luce sulla vetta dell’Olimpo. Qui, con te, nel cuore del mio esistere.

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  1. From Hortus conclusus - POLIFEMO on 07 Giu 2011 at 8:20 am

    […] Qui, per sentire la voce di chi ha parlato prima di Polifemo. […]

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