Il Museo di Man

L’estate 2002 fu quella del viaggio in Galicia. Dotati di una cartina Michelin fortunatamente datata, ci perdemmo su strade nuove in mezzo a parchi eolici, sterrati biondi tra rovi, riserve di caccia di dimensioni sconcertanti. Merito delle querce, dei castagni immensi? (Ma poi, sul serio esistono ancora le riserve di caccia?)

Un pomeriggio luminoso, bianchissimo, immobile arrivammo a Camelle, un paese con un unico bar, un’unica strada, una sola salita verso il mare – oceano, anzi, curiosamente fermo e assopito quel giorno. Ci suggerirono di visitare l’unico museo del luogo, ci indicarono la strada che finiva nell’oceano, dove avremmo trovato il Museo del Alemán.
L’Alemán, Manfred Gnadinger, o più semplicemente Man, era tedesco. Era incappato in quell’angolo di oceano gallego circa quarant’anni prima, proveniente dalla DDR, pare. Ci dissero che viveva solo e mangiava unicamente i frutti del proprio orto o quel che gli portava la gente del paese, con cui era in ottimi rapporti. Un genius loci, un anacoreta da manuale, ma soprattutto un artista.
Giunto a Camelle, infatti, aveva scelto una angolo di pietra bianca a picco sul mare e aveva dato inizio ad un’opera costruita meticolosamente, cresciuta col ritmo di una pianta.

La casa di Man era presso l’ingresso: una capanna di una sola stanza, minuscola, coperta di colori; quando ci aprì, vedemmo, sospese al soffitto, decine di piccole sculture aeree, anch’esse brillanti di colore.
Lui sembrava vecchissimo, ma si trattava, evidentemente, dell’effetto combinato della pelle abbronzata e secca e di barba e capelli lunghi e incolti. Era nudo a parte una fascia sui fianchi; aveva uno sguardo sereno e furtivo e una voce lenta e fonda.
Ci chiese un euro per l’ingresso parlando con un forte accento tedesco e consegnò a ciascuno un taccuino ed una penna: ci spiegò che desiderava da noi uno schizzo, una frase, un qualcosa che rivelasse le nostre impressioni. Gli avremmo restituito il taccuino, già pieno delle impressioni di visitatori precedenti, all’uscita. Divieto di fotografare.

Ci accolse un giardino di ciottoli bianchi ammucchiati in esili torri sugli scogli; corde consunte, frammenti di legno grigio e lattine raccattati sulla spiaggia composti in strutture con mille punti di vista – il viaggio cominciava con la mandibola intera di un grosso pesce; reti da pescatore di fibre plastiche, iridescenti però come squame o vene di metallo; colori intensi, inaspettati: non c’erano ostacoli alla vista ma la sensazione era quella di penetrare all’improvviso oltre mura bianche per trovarsi tra piante magiche, tra suoni immobili; macchia mediterranea a tratti. Su tutto, il silenzio del sole, l’azzurro commovente dell’acqua.

Abbiamo camminato a lungo, quasi col fiato sospeso. Non si trattava, direi, di opere fulgide, appassionanti; però in ogni angolo del giardino – fatico a chiamarlo museo – brillava l’incanto, questo sì.
All’uscita consegnammo obbedienti i nostri taccuini (io avevo schizzato malamente le sculture di sassi e scritto “Blau farbe der ferne”). Ho pensato a lungo allo sguardo che ci rivolse, dopo aver osservato con autentico interesse quanto avevamo scritto.

Come dicevo era l’estate del 2002. Il 17 novembre di quello stesso anno la petroliera Prestige (di equipaggio greco, registrata alle Bahamas, ma di proprietà liberiana e impiegata da una compagnia europea) affondò al largo della costa gallega spezzandosi in due; la “marea negra” devastò il mare, investendo particolarmente l’area di Camelle dove viveva Man.

Dicono che Man si sia lasciato morire di dolore, e un dolore nero è quello che emana dalle fotografie che ho visto, che lo ritraggono davanti alle scogliere e al mare invasi dal petrolio; ma è notizia certa che sia morto poco più di un mese dopo l’arrivo della marea nel suo giardino – inerme, come quei gabbiani dallo sguardo attonito che vengono ripescati in mezzo alle chiazze di petrolio a fior d’acqua. È stato sepolto dalla gente del paese.

E adesso facciamo una botta di conti.
Alla sua morte, Man lasciò il denaro raccolto in tanti anni, e versato regolarmente su un conto bancario, allo stato spagnolo: in totale la ragguardevole cifra di 120.000 euro. Il lascito era espressamente vincolato alla conservazione del luogo che aveva creato e dove era vissuto.
Lo sviluppo, di un paio d’anni successivo: il governo spagnolo incamerò la donazione senza intraprendere alcuna attività di conservazione e rifilò, è il caso di dirlo, alla comunità locale l’amministrazione del luogo dove sorgeva il museo abbandonato: in assenza di risorse, molto poco fu fatto.
Nel frattempo, vandali  devastarono più volte la casa delle sculture aeree; alcune fra le opere più fragili si deteriorarono. Fu apposto un cartello provvisorio – fino a quando? –  per vietare l’ingresso nell’area.
E tuttavia…
Nel frattempo sono trascorsi alcuni anni: è stata creata la Fundaciòn Man che si occuperà di restaurare e conservare il museo, o quel che ne resta; e già da tre anni si tiene a Camelle un incontro annuale di esperti di Land Art dedicato a Man.

Io avverto una sensazione quasi violenta di privilegio, per aver potuto vedere quel luogo nella sua età dell’oro.

Alcuni link per chi volesse approfondire:

–    una biografia piuttosto dettagliata di Man, informazioni sul Museo e sul naufragio della petroliera Prestige (in inglese)

–  il sito de La Voz de Galicia , da cui è possibile risalire ad un gran numero di articoli su Man e sul suo Museo

–    foto successive al disastro ecologico

–    un dettagliato articolo sul naufragio della petroliera Prestige (in inglese)

–    un sito amatoriale dedicato a Man (in gallego)

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