venezia

D’estate a Venezia restavo spesso sola, nei fine settimana. Non mi dispiaceva.

Gli esami da preparare non mancavano e studiare mi è sempre piaciuto. Dalla piccola scrivania, in camera da letto, osservavo una calle stretta, il triangolo del cielo, il perlinato che avvolgeva le pareti della stanza di fronte alla mia, nell’altra casa. Noi non avevamo il perlinato in casa, neanche una doga; e il bagno aveva la vasca: tutto questo mi faceva sentire incredibilmente chic.

Studiavo, dunque, nei giorni della grande calura di giugno, prima degli esami. Mi interrompevo per mangiare qualcosa a pranzo (ma mangiavo sempre pochissimo, nei giorni precedenti agli esami, per la gran tensione). E poi tornavo a studiare, fino a notte.

Allora mi pettinavo, mi cambiavo e uscivo a camminare da sola. Il dono più grande che Venezia mi abbia fatto è stato lasciarsi conoscere di notte. Non mi è capitato in nessun altro luogo.

Uscivo di casa, dunque, e mi incamminavo verso San Marco, o dalla parte opposta, verso Campo San Lorenzo. Oppure andavo alla Madonna della Salute. Passavo davanti al cancello del Peggy Guggenheim; i cristalli sospesi nell’intrico del metallo luccicavano appena.

Quell’estate mi piaceva indossare abiti lunghi fino alla caviglia, chiusi davanti da una fila di bottoni. In genere uscivo di casa abbottonata fino ai piedi; poi cominciavo a sbottonare la gonna in fondo, a seconda della temperatura e dell’afa, e a volte arrivavo alla meta con l’abito aperto fin quasi all’attacco delle cosce. Era notte, non mi vedeva nessuno, quasi nessuno camminava per le calli, e io mi sentivo perfettamente sicura e felice, senza timori, con una città amica intorno. Mi piaceva il silenzio.

Non sentivo la mancanza di nessuno, non mi sentivo sola. Come una pietra nel muro, come la curva di un ponte; come un ramo, una foglia.

Un volta, attraversando il ponte di Rialto insieme a Cristina, avvertii forte, violentissima, la sensazione inequivocabile che non sarei mai più stata così felice, in tutta la mia vita. Né in quella misura, né in quella maniera. Così è stato.

I primi due anni vissi a Venezia dividendo anche l’aria con Lara. Studiavamo allo stesso tavolo, dormivamo nella stessa stanza. Non coincidevano gli orari della levata mattutina e a volte lei stava fuori a pranzo, ma a parte questo dividevamo tutto (o quasi: io mangiavo, poco ma variando la dieta; lei si alimentava esclusivamente di caffè, thé, mele verdi e crackers). Sul tavolo stazionava regolarmente un grosso thermos rosso di thé bollente. Quella che beveva l’ultima tazza, senza dire nulla ne preparava un altro.

La casa era composta da un cucinotto veramente minuscolo, un tinello piccolo, una camera da letto ed un bagno con i particolari in rosso. Il piatto doccia era in plastica, non in ceramica, e bisognava fare molta attenzione a non perdere l’equilibrio quando ci si lavava.

La casa era gelida; il ricordo dei primi tempi a Venezia è costituito da maglie di lana, maglioni pesanti e calzettoni. L’unica fonte di riscaldamento era una stufa a gas collocata in fondo al corridoio, lontana dalla camera da letto, in prossimità di bagno e tinello. Per fare la doccia, chiudevo le porte di tutte le stanze tranne quella del bagno, uscivo e restavo fuori casa un paio d’ore. Era l’unico sistema per avere una temperatura leggermente superiore a quella del bagno di un campeggio.

L’appartamento dava su un interno; due finestre su quattro su un cavedio. Uscendo dal portone, però, le fondamenta Cannaregio in tutta la loro gloria, la loro luce, la loro pietra bianca.

La seconda casa, invece, ancora la sogno. Ci trasferimmo lì in tre, io Cristina e Lara.

A metà della Calle de Mezo, tra Campo San Polo e Rialto, ci si accedeva da un portoncino e da una rampa di scale, che dava accesso solo a casa nostra.

La cucina abitabile, il bagno di buone dimensioni, il soggiorno ampio e la camera matrimoniale disponevano di arredi forse vetusti, ma tutti coordinati, e davano davvero la sensazione di vivere in una casa. Lara stava nella camera singola, tutta di legno scuro e caldo.

E con cura noi ce ne occupammo, di quella casa, tenendola sempre pulita scrupolosamente, spolverando i mobili, stendendo tappeti, un copridivano, la cerata sul tavolo, tende alle finestre del salotto. I proprietari selezionavano con attenzione gli affittuari, sempre studenti; non volevano architetti, per esempio. Di fatto, ci accettarono solo perché conquistati dalla signorilità (e probabilmente dai soldi) di Lara, nella speranza presto evidente di appiopparla all’unico figlio, sfidanzatissimo. Malignammo sulla cosa per i due anni che trascorremmo lì senza stancarcene. Lara non volle mai saperne, né di questo fidanzato né d’altri, per la verità. Studiava fino a consumarsi, senza averne le soddisfazioni sperate. Ricominciò a fumare e mangiava sempre meno.

Ricordo l’ultima volta che chiusi gli scuri della camera da letto, dopo aver rimosso ogni traccia della mia vita lì. Il rumore della sbarra mi fece cadere il cuore.

Gli anni di Venezia sono stati all’insegna del femminile; delle tre ero l’unica ad avere un fidanzato, sempre opportunamente lontano (a Milano prima, poi l’altro in Cina, più spesso che a Padova). Anche le amiche del giro non avevano fidanzati, o se c’erano erano lontani. Uomini, non se ne frequentavano.

A ripensarci capisco che uomini, io, non ne volevo intorno; forse anche le altre. Un universo squisitamente femminile, fatto di studio (intenso), di crescita lenta di donne; settimane per decidere quale colore donasse di più, sedute di consigli domestici, estesi alle colleghe di università degli anni successivi, per decidere se tagliare i capelli, se farsi le méches. Ricette di cucina; i romanzi di Marquez, le poesie di Neruda i primi tempi; poi Annamaria Ortese, saggi di antropologia culturale, Antonia S.Byatt. Musicassette nella radio portatile, a zonzo dall’una all’altra: Loreena McKennitt, Enya, Mike Francis (Mike Francis!). Io ascoltavo molto Branduardi. Un monastero, ma certo più divertente. Ridevamo molto, sì.

E studiavamo. Madonnina, se studiavamo.

Alla fine del secondo anno, in stazione, separandoci per le vacanze estive, Cristina mi disse: “Siamo al giro di boa”. Metodiche e accanite come taglialegna, noi abbattevamo i tronchi degli esami, li accatastavamo con cura. Ci avrebbe pensato il fiume a portarli a valle.

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