“la rusalka” di alexandr puskin – riscrittura in forma di favola

La Rusalka è un’opera teatrale di Alexander Puskin, rimasta incompiuta. Qui il testo, tradotto in italiano, che resta interrotto sul più bello, come da manuale. L’argomento della ninfa d’acqua dolce, ondina malevola e inesorabile, doveva esercitare un certo fascino sullo scrittore, che nel 1819 scrisse anche un poema sull’incontro fra una rusalka e un monaco: qui il testo tradotto in inglese. Ho escluso i testi originali russi per la semplice ragione che non parlo una parola di russo e non sono in grado di giudicare una pagina web in quella lingua.

Da bambina lessi questa storia in forma di favola e ne restai folgorata. Adesso ho deciso di riscriverla, con qualche variazione sul tema.

Sul fondo del Dnepr, nel punto in cui il fiume faceva una curva lenta, e dove era poco largo, ma molto profondo, vivevano le rusalke. Uscivano a sera, emergendo dall’acqua, e sedevano sulle sponde a chiacchierare e cantare, pettinando le lunghe ciocche verdi delle loro chiome, scuotendo l’acqua dalle morbide, lisce braccia. Poiché attiravano viandanti e bambini nell’acqua, uccidendoli per via di un oscuro risentimento incomprensibile per gli uomini, il luogo era poco frequentato dalla gente del paese vicino.

Sulla riva sorgeva però un mulino: il mugnaio, che viveva lì solo con la figlia, non aveva alcun timore delle rusalke, a suo giudizio una mera fantasia messa in giro da qualche ubriacone o da qualche donnetta superstiziosa. Non riusciva neppure ad udirne il canto. Del resto, il canto delle rusalke si lascia ascoltare solo da coloro che le ondine vogliono irretire, qualcuno che il destino ha toccato porgendogli doni feroci.

La figlia del mugnaio era una fanciulla solitaria, di grande bellezza. Poco avvezza alla gente, il giorno che un cavaliere smarritosi nel bosco era giunto alla soglia della loro casa, se ne era innamorata senza rimedio, sentendosi ricambiata da un uomo che le portava spesso frutta e fiori e si intratteneva lunghe ore con lei, appoggiandole sulle spalle il proprio mantello lussuoso quando sentiva freddo. Il padre, che aveva immaginato le ricchezze del cavaliere e che sperava di diventare suocero di un grande signore, aveva incoraggiato il loro amore.

Ora però il cavaliere era assente da parecchi giorni e la fanciulla non sapeva cosa pensare. Per giunta le osservazioni malevole del padre, dettate dalla delusione, la rattristavano ancora di più. Quel pomeriggio, finalmente, sentì il rumore degli zoccoli del suo cavallo, ormai a lei familiare. Gli corse incontro alla piega del sentiero:

– Eccoti, oh eccoti finalmente! – esclamò avvicinandosi a lui. Il cavaliere scese in silenzio da cavallo, nascondendo il volto nell’ombra del copricapo.

– Ma dove sei stato? Ho patito mille morti in tua assenza! Ho temuto che ti fossi perduto, che fossi caduto da cavallo e giacessi ferito in qualche luogo, che tu mi avessi dimenticato, che tu non mi amassi più!

– Non amarti più? – disse il cavaliere con un sorriso debole. – No, anima mia, ti amo ancor di più!

La fanciulla lo afferrò per un braccio e lo osservò con un’attenzione tutta nuova in lei:

– No. – disse lentamente. – Tu non sei felice di vedermi! Non mi sei corso incontro, non mi abbracci, non mi baci sulle palpebre come fai di solito! Cosa succede? Ho forse causato la tua ira? Perché sei triste?

– No, fanciulla mia, no. Ho dei gravi pensieri, ma tu non ne hai colpa. Tuttavia… – il cavaliere sembrò esitare, poi continuò precipitosamente: – Perché aspettare? Cara, tu lo sai che la felicità è fatta di pochi momenti. Il tuo amore mi ha reso felice, e qualunque cosa accada io non dimenticherò mai la tua dolcezza.

La fanciulla fa un passo indietro e si è fatta pallida:

– Mi fanno paura le tue parole. Non le capisco e ne ho timore. Ci sovrasta un orribile destino…di separazione…

– E’ così. – risponde il cavaliere, più asciutto di quanto non vorrebbe. – Io non sono un semplice cavaliere, come tu credi. Sono il principe di uno stato confinante con questo. E i principi non possono scegliere il loro destino…

– In guerra! Devi andare in guerra…no! Adesso capisco. Tu stai per prendere moglie! – la fanciulla ormai grida, e le lacrime le scendono sulle guance – Tu stai per sposarti! – ribadisce, quasi minacciosa, davanti al silenzio di lui.

– Cosa posso fare? – dice lui, come da una grande lontananza. – Osserva tu stessa: credi forse che i principi siano liberi di scegliere chi amare, chi sposare, come voi ragazze? Devo sposarmi, si! Per ragion di stato, non per mia volontà, bada bene. Sono tornato a trovarti per portarti questi doni. Lascia che io stesso ti adorni – e le posa un diadema sulla fronte, le fa scivolare una collana intorno al collo – e ti prego, non dimenticarmi. Dio e il tempo leniranno la tua pena…e lascia che ti abbracci, che ti abbracci per l’ultima volta.

Il principe la abbracciò mentre lei stava immobile, fredda fredda, e se andò in fretta. Si poteva leggergli il sollievo nel movimento delle spalle, e la fretta di allontanarsi.

La fanciulla rimase immobile, nel silenzio. Il padre uscì dal mulino e si fregò le mani vedendo lo scintillìo dei gioielli.

– Che gioielli magnifici! Non dirmi, doni di nozze, finalmente?

Ma la figlia si voltò a osservarlo con occhi smarriti:

– Oh, padre mio! Com’è potuto accadere? Lo amavo tanto! Come ho potuto in una sola settimana perdere tutta la mia bellezza? O forse gli hanno gettato addosso un sortilegio?

Il mugnaio non capiva:

– Ma cosa ti succede?

– Se n’è andato…se n’è andato per sempre. Ed io non ho neppure cercato di trattenerlo, di aggrapparmi alle vesti, al cavallo!

– Ma sei pazza! Cosa dici?

– Vedi, padre mio, egli è un principe. E i principi non sono liberi di scegliere chi sposare. Però possono ingannare le fanciulle, giurando loro eterno amore, promettendo abiti di velluto e stanze sfarzose. Certo, possono divertirsi e poi decidere di andarsene, e credere che qualche gioiello rimetta tutto a posto. – La fanciulla si interruppe per un attimo, il petto ansante, poi riprese minacciosa: – E chi sarà la sua fidanzata? Io posso ben andare da lei e dirglielo, dirle “Vattene! Il principe è mio, e non v’è posto per due lupe nella stessa tana!” – Tocca febbrilmente la collana e il diadema – Questa che mi ha dato non è una collana, ma una vipera, una serpe che mi soffoca. Ecco! – e strappa la collana di perle, e sconvolta grida: – Così, così vorrei spezzare te, maledetta rivale! E questa corona! – si toglie il diadema e lo fa scintillare girandolo fra le mani. La sua voce è piena di beffarda, gelida disperazione quando prosegue: – Ecco la corona che ho meritato grazie a lui! Una corona di vergogna, da cui mi libero, così!

La fanciulla scagliò la corona nella corrente del fiume.

– Sono libera! Sono libera e tutto è perduto!

E senza più voltarsi si gettò nelle acque che si richiusero, veloci e impenetrabili, su di lei. Il mugnaio cominciò a gridare, a chiamare, ma la fanciulla non comparve più.

**

Giunse per i principi il giorno delle nozze. Nella sala del banchetto gli ospiti divoravano i cibi squisiti, l’idromele e il vino scorrevano e tutti sembravano felici di essere lì.

Il compare di matrimonio si rivolse alle fanciulle del coro che da qualche tempo tacevano:

– Ebbene, mie care ragazze? Non avete più canzoni da cantare agli sposi? Forza, cantateci qualcosa che ci rallegri tutti!

E la fanciulle, di rimando:

Compare, compare

sforzati di capire!

Nell’orto sei entrato,

la birra hai versato

e all’uscio chinato

questo hai cantato:

“O porta, porticina

alla novella sposa

mostra tu la stradina”

Compare, cervello fino,

non tener stretto il quattrino!

E tutti risero a crepapelle del compare che, fingendosi seccato, porse un soldo a ciascuna delle ragazze.

E, mentre le fanciulle si osservano e si interrogano con lo sguardo, per decidere quale canzone dedicare agli sposi, si leva una voce, un canto limpido e sicuro, da un punto imprecisato della sala.

Scorre il fiume tra sassi e sabbia d’oro

vi guizzano e vi trovano ristoro

due pesci d’argento mobili ed agili

a muover pinne, a chiacchierar volubili…

“Fratello, fratello pesce, che notizia è arrivata!

Una fanciulla nel fiume s’è gettata

perché il suo amato l’aveva abbandonata

s’è annegata per la disperazione

e su quel nome una maledizione

ha scagliato, morendo sconsolata.”

– Ma questa non è una canzone di nozze! Chi ha cantato? Smettetela subito! – tuona il compare, arrabbiatissimo e rosso in faccia. Ma nel silenzio della sala le fanciulle del coro sono impallidite e tutte negano col capo, scuotendo le trecce: non sono state loro!

Il principe balza in piedi tra gli invitati stupiti e furioso grida:

– Io, io lo so chi è stato!

E poi afferra per un braccio il fido scudiero e gli sussurra di correre a cercarla, la fanciulla, chè certo è riuscita a sgattaiolare dentro e adesso si prepara ad una scenata terribile davanti a tutti. Ma lo scudiero, che conosce bene la fanciulla per aver accompagnato tante volte il suo signore al mulino, non riesce a trovarla e torna indietro perplesso, stringendosi nelle spalle.

– Eppure dev’essere qui! – insiste il principe. – Quella era la sua voce, non mi sbaglio!

Intanto la festa prosegue, la comare ed il compare di nozze battono le mani e ricordano che è tempo, per gli sposi, di dividersi il galletto arrosto, poi tutti devono cospargerli di fiori di luppolo, per buon augurio. E infine gli sposi si scambiano un bacio.

Allora, nuovamente, si leva una voce di donna da qualche angolo, e getta un grido fievole di disperazione e di odio. E il principe sussulta, e capisce che quello è il grido di lei, della donna abbandonata, furibonda di dolore. Ma ancora la donna non si trova.

Ecco, gli sposi vengono accompagnati nella loro stanza. Gli invitati se ne vanno alla spicciolata, le fanciulle escono garrule, facendo tintinnare le monete ricevute in compenso per il loro canto. Restano il compare di nozze e la comare, a vegliare sulla prima notte insieme del principe e della principessa. E mentre il compare si versa dell’altro vino (dovrà vegliare tutta la notte!) commentano la cerimonia, che è stata bella e allegra, almeno fino a quel canto sfortunato.

– Chissà cos’hanno nella testa le ragazze! Che idea, cantare una canzone così ad un matrimonio. – commenta il compare prima di vuotare il bicchiere. La comare resta in silenzio, e nella vaga malinconia della festa finita, avverte come un presagio di sventura.

**

Trascorsero alcuni anni. Il principe e la sua consorte non erano felici: lui trascorreva tutte le giornate a caccia, alzandosi all’alba, tornando a tarda sera, a malapena scambiando con la moglie poche parole. E lei si struggeva, senza riuscire a capire quale mancanza potesse aver commesso per meritarsi tanta freddezza. Temeva che il principe si fosse innamorato di un’altra donna, temeva di annoiarlo, e nel suo amore impotente era sempre più triste. Invano la sua nutrice cercava di consolarla, ricordandole che gli uomini fanno sempre così, e trascurano le mogli preferendo cacce e cavalli, ma non per questo le tradiscono.

Il principe, veramente, era infelice, dal canto suo, anche se la povera principessa non ne aveva colpa alcuna. Dentro di lui il rimorso e il rimpianto per la figlia del mugnaio non lasciavano spazio alla gioia e alla distrazione. Solo le cacce e la fatica fisica, con la stanchezza che ne seguiva, attenuavano i suoi mesti pensieri. Un giorno, dopo molti anni, decise di tornare al mulino per vedere cosa ne fosse stato della fanciulla e di suo padre.

Il bosco aveva invaso il sentiero, tanto che lo trovò a fatica, nonostante conoscesse perfettamente quei luoghi. I rovi e le ortiche crescevano al posto dell’orto ben coltivato che ricordava ed il mulino era poco più che una rovina dalle pietre scure e coperte d’edera, le pale immobili. Da molto tempo, era evidente, nessuno viveva più lì.

Lasciò il cavallo legato ad un albero e percorse un tratto a piedi, fino ad una vecchia, bellissima quercia, sotto la quale spesso aveva incontrato la sua fanciulla, che gli correva incontro piena d’amore e di fiducia. Appoggiò la mano sul tronco, alzando il viso a osservare il fogliame denso e verde.

Ed ecco, all’improvviso, tutte le foglie ingiallirono e si accartocciarono e cominciarono a cadere. Come una pioggia di cenere, come se l’albero piangesse senza potersi fermare, le foglie gli cadevano sulle spalle e sul capo ed egli, atterrito, rimase tuttavia immobile fino a quando il triste prodigio non fu compiuto, e l’albero spoglio.

Allora si allontanò con un brivido. Improvvisamente si accorse di un vecchio contadino che faceva legna, poco più in là. Gli si rivolse e gli chiese:

– Buon uomo, lei è di queste parti? Che cosa ne è stato del mulino e di chi lo abitava?

Il vecchio si raddrizza e si leva il cappello davanti al cavaliere e poi risponde, rispettoso e un po’ mesto:

– Eh, cavaliere…sono già sette anni che nessuno abita più al mulino, e nessuno macina più la farina! Il vecchio mugnaio morì di crepacuore, si dice, perché la sua unica figlia si era uccisa gettandosi nel fiume. – il vecchio osservò per un poco le acque veloci, prima di proseguire: – Era una ragazza bella, ma un po’ stramba, e riservata. In paese non la si vedeva mai…

Il principe rimase silenzioso e il vecchio lo salutò e se ne andò con la legna. Si sedette sulla sponda a osservare la corrente e solo a tarda sera rientrò al castello.

E da quel giorno la povera principessa non ebbe più da lui neppure un sorriso, neppure una carezza distratta.

Cominciò a tornare spesso in quel luogo. Imparò a riconoscere il canto delle rusalke, che si levava dopo il tramonto del sole, come per salutare la luna. Le voci erano ora bisbigli sottili, ora lunghi lamenti, come singhiozzi, ora una carola di risate che si sgranava riempiendolo di una gioia inquieta e torbida, perché gli pareva di riconoscere, tra le voci mescolate, anche quella della fanciulla un tempo amata. Quando salivano veloci, una dopo l’altra, a spezzare agilmente le onde fresche, il loro canto parlava dei loro giochi:

Com’è tiepida la luce

della luna! Ora ci piace

dal fiume emergere,

il fondo lasciare.

Libere e liete nell’onda

cantiamo con voce gioconda

e al vento che l’acqua disperde

asciughiamo la chioma verde.

A tarda notte le rusalke se ne andavano, e a volte riusciva ad ascoltarne l’ultima canzone:

E’ tardi, ormai il bosco

è freddo, muto e fosco.

La luna è al suo tramonto,

lontano si ode il canto

del gallo, e noi dobbiamo

tornar sotto le onde…andiamo…

**

Sul fondo del fiume, nel palazzo di sabbia e conchiglie tra le piante acquatiche, le rusalke filavano attorno alla loro regina e alzarono la testa, quando lei posò il fuso e battè leggermente le mani:

– Basta, sorelle. Lasciate il lavoro. Fra breve la luna salirà in cielo, è tempo che saliate in superficie, che cantiate. Ma questa notte non ingannate il viandante, non riempite di alghe e melma la rete del pescatore, non attirate nell’acqua un bambino con racconti meravigliosi sui pesci…presto, andate e cantate.

Le rusalke uscirono in frotta, desiderose di nuotare verso la superficie. Solo una di loro, una rusalka giovane come una bambina, restò  indietro, a osservare la regina con occhi seri:

– E tu, non vieni? Neppure stasera? Perché hai cessato di unire la tua voce alle nostre nel canto? Tu sai che quell’uomo è sempre sulla riva del fiume, e sembra attendere proprio la tua voce? Queste sere, da che non sei più venuta, è più triste che mai. Chi è? Perchè lo eviti?

La regina emise un sospiro lieve e sedette sui gradini del trono:

– Tu, piccola mia, tu non c’eri quando io sono giunta presso di voi. Quell’uomo mi fu molto, molto caro, un tempo. Eppure è per causa sua che mi trovo qui: avvenne perché lui disprezzò il mio amore che mi gettai nel fiume. La fanciulla che ero morì e mi risvegliai rusalka, regina gelida e possente.

– Però è ancora nei tuoi pensieri. E tu sei certamente nei suoi, oh, quanto a questo…

La regina e la sua giovane compagna restarono in silenzio. La più piccola attendeva con pazienza. Infine la regina alzò il bel volto e la osservò con un fulgore strano negli occhi, che erano verde pallido come certi sassi che si trovano sul fondo sabbioso dei fiumi:

– Parlagli di me, parlagli con dolcezza, con tenerezza. Tu saprai trovare le parole giuste. Digli che dopo tutti questi anni ancora lo aspetto, ancora lo amo.

La piccola rusalka osservò la sorella con il dubbio sul volto:

– Davvero, ancora lo ami? Dopo il dolore e il disprezzo, dopo che ha provocato la tua morte, ancora lo ami? Non cerchi la vendetta?

La rusalka si alzò, osservando la luce verde e nera che scendeva dalla superficie delle acque fino al palazzo in fondo al fiume. Poi sorrise alla compagna più giovane, il sorriso che le rusalke si scambiano quando vogliono parlarsi senza parole, e disse solo:

– Tu portalo a me.

E la più giovane accennò col capo che sì, aveva capito, e guizzò via, risalendo verso la superficie come un’agile bolla d’aria, ed emerse silenziosa, smuovendo una piccola cresta.

Il principe sedeva in riva all’acqua e gli pareva, quella sera più che mai, che la fanciulla amata fosse lì vicino, e che sarebbe bastato pochissimo per vederla, finalmente.  Eppure da diverse sere, ascoltando il canto delle rusalke, non riusciva più a distinguere la voce a lui così cara.

– Se solo potessi rivederla, parlarle del tormento che vivo da quando l’ho lasciata, dirle che non ho mai amato nessuna, nessun’altra dopo di lei! Se potessi tornare indietro, a vivere quell’amore libero e felice, quell’amore che io da folle ho disprezzato!

Un fruscìo leggero lo mise in allarme, e aguzzò la vista verso il cespuglio arcuato sull’acqua, da cui sembrava provenire. Credette di sognare quando vide comparire una figurina esile, luccicante d’acqua, con una straordinaria capigliatura verde scuro come le alghe. Una fanciulla, anzi una bambina, sottile e dagli occhi grandi.

– Cosa vedo mai! Chi sei, bimba?

La piccola rusalka sorrise a labbra chiuse e gli si avvicinò:

– Eccoti di nuovo. – disse con la sua voce lieve e melodiosa. – Vieni qui tutte le sere ad ascoltare il nostro canto. Credo di sapere chi stai cercando…e lei ti attende, sai. Mi ha parlato di te. Lei ti attende da molto tempo.

Il principe rimase a fissarla senza parole, il cuore fermo in petto. La piccola rusalka tese una mano:

– Vuoi venire con me?

**

Quella notte la principessa attese con angoscia il rientro del principe. All’alba, pallida di paura, mandò servi e scudieri a cercarlo.

Nel primo sole del mattino che filtrava tra la nebbia trovarono facilmente il cavallo, docilmente legato ad una quercia morta. Chiamarono e chiamarono il principe, battendo ogni angolo del bosco. Finalmente trovarono il suo mantello, impigliato in un cespuglio proteso sull’acqua. Le falde erano immerse nella corrente e alcuni rami erano spezzati. La corrente del fiume scorreva placida, immemore.

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