A SUD, ALLA POESIA

Da parecchi mesi frequento, ogni giovedì sera, un ciclo di letture di poesia presso un circolo culturale.

Le serate sono organizzate da due professioniste, poetesse laureate che, oltre a scrivere, e bene, hanno pubblicato svariati libri e conoscono l’ambiente. Per giunta sono due donne molto gradevoli e accoglienti sotto il profilo umano, sicché tutto avviene nel modo migliore, amichevole ma serio. Insomma non si ha la sensazione né di una visita al Museo del Tassidermista (come alla Casa della Poesia di Milano), né la percezione di una festa freak post liceo.

Ho assistito alla lettura di vecchi leoni e leonesse, di esordienti assoluti con la voce strozzata, di individui brillanti  e consapevoli, di soggetti umbratili dalla voce tenue; verso tutti, istintivamente, ho provato un’ammirazione incondizionata per la capacità di esporsi; verso alcuni anche un senso di disagio sconfinante nel fastidio (ma con che coraggio leggi roba del genere?).

E’ straordinaria la capacità di autopersuasione che hanno talvolta le persone: esibiscono senza imbarazzi la convinzione di avere qualcosa da dire e di aver trovato le parole giuste per farlo. Di solito, gli inascoltabili sono quelli che si presentano solo quando tocca a loro di parlare – e questo è per me il fatto più sconcertante.

Taluni sono giunti, implacabili, nelle serate collettive o di poetry slam e poi sono scomparsi nuovamente. Sia detto senza malanimo, le loro cose erano come minimo banali, spesso sciatte, e mi sarei aspettata un forte desiderio, da parte loro, di ascoltare la voce degli altri.

Credo che cerchino invece una conferma nei volti, nell’accenno di applauso, probabilmente fondamentale per procedere oltre. Non credo si tratti solo del microfono e del quarto d’ora di riflettore puntato, quale surrogato ectoplasmatico della notorietà: così sostiene per esempio un altro frequentatore sul suo blog. Immagino infine che il fatto di trovarsi in una compagnia nutrita dia sicurezza.

Poi ci sono altre serate, come l’ultima per esempio, che sono più difficili da pensare e da collocare. Le ultime poetesse che ho ascoltato hanno scatenato entusiasmi a mio giudizio eccessivi, anche se hanno certo fatto un lavoro egregio, di spessore, a prescindere dai gusti personali.

La prima ha letto una quantità di poesie belle in sé, ma tutte con il medesimo sapore, il medesimo sviluppo, con un uso ripetuto di alcuni termini evidentemente molto sentiti, in una sorta di sperimentazione profonda, ossessiva: una ricerca di sfaccettature, di nuovi significati dietro le ombre delle stesse lettere. Lodevole e affascinante, ma 20 poesie 20 sono decisamente troppe in un’unica sessione: come ascoltare una dopo l’altra 20 variazioni minimamente variate sullo stesso tema.

La seconda ha un cognome famoso nell’ambiente letterario e probabilmente scomodo. Avevo già letto cose sue e in qualche modo ho riconosciuto il tono. Poesie brevi, al limite dell’aforisma, anche qui temi fissi (e chi non ne ha?), sentenze eleganti, a volte un nonsense che per me tale è rimasto. Il tutto, letto come la prima lettera di San Paolo Apostolo ai Corinzi alla messa delle 8.

La terza, molto semplicemente, non ha incontrato il mio gusto, anche se il suo lavoro mi è parso molto buono.

La serata, a giudicare dalle reazioni, è piaciuta moltissimo. Io stessa fatico a comprendere cosa mi abbia lasciato perplessa nel profondo; certo è che ascoltare 40, 50 poesie in un’ora e mezza per me è troppo: un eccesso di vitalità riversata, di emozioni cristallizzate in poche righe, in pochi minuti; colori appena colti che svaporano in qualcosa di diverso, un lilla che diventa blu troppo in fretta, un verde tenero che degrada nel giallo limone senza averlo potuto assaporare. In più, a volte mi è parso di cogliere una vaga supponenza, uno sguardo – com’è quel bellissimo aggettivo inglese? – supercilious che, nel contesto, sfiora il ridicolo.

La persona con cui frequento queste serate ha sofferto con brividi autentici per la dizione scadente e il tono piatto. So che una volta o l’altra si toglierà la scarpa come Kruscev e la batterà sul banco del bar e scoppierà un bel casino.

A cosa è legato il fastidio nascosto che provo? Ci ho pensato molto e credo sia questo: prima di proporre un pezzo in un contesto allargato io limerei, cancellerei, rifarei infinite volte (va da sé che non mi produrrò mai in pubblico). Altre volte ho ascoltato cose non di mio gusto ma sulla qualità delle quali non nutro dubbi, perché ho colto, dietro, un lavoro instancabile, di macina da grano, di centrale idroelettrica. Quando le parole sono perfette può dipendere da uno stato di grazia o da un’attività spossante: io non capisco spesso, ascoltando una buona poesia, da quale dei due. Ma capisco quando ci si lascia trascinare da un entusiasmo momentaneo per il proprio lavoro o dall’approvazione estemporanea di una persona: quello è il momento pericoloso in cui rischi di archiviare una bozza come un lavoro finito. Ecco, questo ho percepito l’altra sera.

Alla fine, forse temo lo spreco di buon materiale, non lavorato a sufficienza, non amato o odiato abbastanza.

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