LA RESA

Arrendersi anche solo a un proprio testo implica convinzione, un rossore di piacere che affiora finalmente sulle guance. Lasciar cadere la foglia nell’acqua nel momento in cui tu stesso diventi foglia, diventi acqua. Cogliere quel momento e arrendersi, arrenderlo.

La contemplazione del silenzio nei pomeriggi fermi rende dolcissimo il suono di una voce, come miele inatteso. La solitudine è preziosa, ancor più convincersi a condividerla. E’ un’altra forma di resa: al bisogno di sé, al bisogno di altri, al bisogno e al timore dell’invasione, al desiderio di invadere e di essere accolti.

Cosa urge, da dentro, da sotto, cosa spinge a spezzare con la testa il tetto delle acque? Acque che proteggono e nutrono, che tremano e nascondono e sviano.

Ogni suono e colore è diverso, più uniforme e brillante, pieno di pace, del rumore lontano di un abisso. Dagli abissi di noi stessi emergiamo quasi contro la nostra volontà  e noi stessi siamo, al tempo stesso, il marinaio ammaliato e la sirena che lo addormenta col suo canto indicibile.

La sirena emerge all’improvviso e potresti confonderla con una cresta di spuma, e ti  inebria con la dolcezza di teremin della sua voce, intollerabile piacere, e sale sulla nave e allora ti tocca. Cosa avviene allora, nel suo tocco umido sul tuo braccio? Uccide? Vivifica? E’ comunque micidiale e non è possibile sottrarsi ad esso. Non vorremmo rinunciare al nocciolo del nostro esistere, parliamo di limiti e confini, di boschi di rovi e ponti levatoi, di isole nella corrente – tutto è ancora e sempre circondato dall’acqua. E l’acqua vince sempre.

Abbiamo solitudini personali da rispettare, abbiamo acque da attraversare. Siamo fatti d’acqua, e poco altro, e tanto basta.

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