ELENA

Cominciano a diventare legione, gli uomini e le donne dell’Odissea dentro la mia testa. Euriloco, Penelope, Circe, Antinoo, Calypso, e ora Elena…

Qualcuno potrà forse pensare che la bellezza, la mia bellezza perfetta, sia un peso arduo da portare. Ed io potrei accennare col capo, fingendomi d’accordo, fingendo d’apprezzare chi finalmente ha scorto il nodo segreto del mio esistere, fingendo che in effetti la mia bellezza sia per me un ostacolo, una maledizione, una violenza. Ma io disprezzo questo tipo di finzione. La mia bellezza mi è cara ed è sempre stata la mia miglior difesa, e di essa armata io sono più solida e terribile di Achille in battaglia. Egli è morto, ma nessuno osa scalfire la mia pelle di marmo.

Quando Menelao è venuto a riprendermi aveva bensì la spada alzata e gli occhi furiosi. Io sedevo accanto a Deifobo addormentato, dopo aver rimosso le sue armi, per esser certa che fosse trovato inerme.

Mi bastò voltare appena il viso verso di lui, levare un braccio in invito. Non dovetti neppure accennare a supplicare. Il suo volto mutò repentinamente, la pace del possesso, la certezza di avermi di nuovo con lui emersero dal fondo dei suoi occhi. Abbassò la spada e il capo e con una mano macchiata di sangue e polvere toccò l’orlo della mia tunica.

Ora qui, a Sparta, la mia vita è pressoché la stessa di Troia. Vivo nelle mie stanze, tesso al telaio. Ho il nepente delizioso a mia disposizione quando desidero sensi più acuti, una pace stordente nelle vene.

Di Paride non ho veri ricordi, perché la fuga e la mia vita con lui furono illusione, simulacro dell’esistenza. Nebbia dorata, profumo, letti morbidi, tende come d’alabastro: Afrodite, sovrana delle seduzioni, suggeriva in un sussurro dentro il mio cuore come muovermi, come osservarlo, quale fermaglio schiudere insensibilmente perché si scatenasse la tempesta nel suo sangue. Sangue. Quanto sangue ho visto, anche quello di Paride.

No, non lo rimpiango: ero il suo serto d’alloro, il coronamento della sua esistenza, il trofeo da concupire e sempre toccare per accertarsi che fossi proprio sua. Ero la prova del successo cui aspirava, che si arrogava. Nessuno mi desidera per me stessa, e lui meno degli altri.

Sono appartenuta a più uomini, a Menelao, a Paride, a Deifobo, di nuovo a Menelao…Deifobo mi faceva orrore e repulsione, fui costretta a sposarlo da Priamo. Era stanco e senza più speranze, Priamo: mi aveva protetta e custodita come una figlia, in precedenza, ma il futuro era ormai un muro cieco.

Menelao…il più semplice di tutti, quello che senza esitare mi ha ripreso con sé senza curarsi del dileggio o delle critiche; quello che, di tutti i miei corteggiatori e amanti, ancora fatico a comprendere. Forse considera che, dopo una guerra di dieci anni, come minimo gli spetti l’oggetto conteso: dopo aver tanto combattuto…! Ha perso amici e compagni e suo fratello Agamennone è morto per le conseguenze della guerra. Mia sorella Clitemnestra ha sempre avuto questa caratteristica: la capacità di farsi ossessionare da un’idea, di esaminarla, rivoltarne ogni aspetto, levigarla, fino ad adattarla perfettamente ad ogni momento, ad ogni respiro. Si è lasciata corrompere dall’amore per la figlia perduta e ha costruito ed eseguito una vendetta perfetta, priva anche solo di una casuale pietà.

Io non sono così. Io risolutamente respingo ai confini della mia vita brutture e orrori: il sangue che ho visto non mi ha mai macchiato e i miei sonni non sono turbati da grida e da morte.

Per ottenere questo devo essere sempre all’erta e impedire a me stessa di indugiare troppo sul passato, di accostarmi da vicino alle fiamme che alimentano la mia esistenza. Un tepore sopito, un trascorrere lieve di giorni, di suoni, mai vento teso, solo la brezza. In questo concentro le mie energie, sedendo assorta, assorbendo gli aspetti più lievi dell’esistenza come un unguento divino.  Tesso muovendomi intorno al telaio, in una danza costante composta sempre dalle stesse figure, muovendo le dita regolarmente, camminando con passi precisi. Il disegno e l’ornato della tela diventano il percorso dei miei giorni, che vado creando senza fretta e senza esitazione: la tela diventa la mia vita, io esisto finché tesso, esisto in quel che tesso.

Così resto sempre uguale a me stessa, più di altri, credo, sovrana del mio destino. La mia bellezza sconcerta e ammalia perché rispecchia perfettamente la mia anima, senza celarne alcun segreto: ma questo, chi mi osserva non lo sa, o non potrebbe crederlo.  Questo è il piccolo enigma del mio sorriso indescrivibile; del sorriso di Elena, nessuno mai ha scritto.

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  1. From Hortus conclusus - TELEMACO on 28 Mar 2010 at 9:36 pm

    […] Ormai il filo omerico si allunga sempre più…per un viaggio a ritroso partire da qui. […]

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