MERLINO E VIVIANA

La storia di Merlino e Viviana mi perseguita dall’infanzia; quanto segue è stato elaborato nel corso di circa 15 anni – quanto tempo per così poco. La storia arturiana è vaga e multiforme e gli stessi personaggi, a seconda delle versioni, sono profondamente differenti. Io ho trovato particolarmente convincente la lezione di Michel Rio, ma nel caso di Viviana ho privilegiato l’aspetto del confine, del limite, della seduzione: la sua forma è, per come la vedo io, la forma dell’acqua. In Viviana vedo le Sirene e Melusina e mi chiedo ancora se il loro tocco vivifichi o, come voleva Leonardo, uccida.

Quando aprì gli occhi era di nuovo giorno.

Non si mosse, restando assorto: respirava e percepiva, come sempre, il ritmo delle nuvole e delle foglie dentro le proprie vene. Aprì le labbra in un sorriso antico, screpolato di rughe, pieno di seduzione. “La seduzione della mente, della volontà” gli aveva detto una volta Artù, ammirato e timoroso. Uscì dalla grotta lentamente, soffermandosi sui propri passi.

Le farfalle arrivarono in frotta, bianche e gialle: l’aria stessa odorava di battiti lievi e inquieti. Brillavano nel sole, cercandone i raggi che filtravano tra le foglie degli alberi, e lo circondarono, come se stessero saggiando il suo corpo. Nessun tocco di donna avrebbe potuto essere più insensibile e sensuale al tempo stesso…quasi nessuno, almeno. Sorrise di nuovo.

Incamminandosi, fece scorrere un dito sulla lingua d’acqua che scivolava sul muschio, poco più in là. Amava quelle vene d’acqua, discrete, stupefacenti dietro una roccia, come timorose della luce, più vive e sonore nelle ore notturne. Quando seguiva i gufi che volavano nella notte non mancava mai di cercare nuove striature d’acqua, invisibili come le tracce della lumaca.
La pienezza fisica della sua vita nella foresta lo aveva portato ad assaporare ogni istante di tempo, ogni sorso d’aria come un frutto gonfio di sapore o un bacio squisito. E tanti erano, nella sua vita, tanti i frutti addentati fino al nocciolo, tanti i baci goduti fino all’ultimo tremante piacere.

Il passato illanguidiva come il tumulto di un temporale sempre più lontano, come nubi funeste che inquietavano sempre meno. Tutto illimpidiva, dolori e gioie e feste e battaglie, gli occhi stellari di Morgana e il buio del suo cuore, i capelli biondi di Artù e la rossa piaga sul suo petto…
Chiuse gli occhi un istante e la quiete gli rifluì dentro, densa e dorata come miele nel favo.
Seguiva il sentiero che lo conduceva verso la Valle osservando le foglie secche sotto i suoi passi. Godeva in ogni minimo mutamento, di ogni moto della vita intorno a lui: cosicché presentiva il giallo intenso dell’autunno nel verde sfacciato delle foglie attraversate, possedute gelosamente dal sole di marzo. E nelle nuvole cupe delle piogge di settembre avvertiva il bagliore bianco delle lievi striature estive.

Carezzava un ramo nero di biancospino che subito fioriva, tenero e fresco, di bioccoli bianchi come bianca pelle di ninfa. Udiva le risate divertite e contente delle amadriadi e intuiva l’onda dei capelli, le gambe gracili e lisce sotto il tronco delle querce.

Lo rallegrava quel suono lieve, come di rondini al di sopra di alberi frondosi; gli ricordava la voce della donna, la fata, che lo attendeva.

La presenza del femminile, nella sua vita, aveva sempre segnato attimi capitali; e questa, questa più di ogni altra, questa il cui corpo era di diamante e nuvola, e il cui sorriso schiudeva fontane di desiderio. Tuttavia non accelerò il passo, godendo anche di quell’attesa. Aveva imparato quanto preziosa, quanto inebriante fosse l’attesa. Spesso aveva rimproverato ad Artù la sua incapacità di aspettare. Non che fosse servito a molto…

Il sentiero costeggiava ora il lago; l’acqua era verde muschio e piccole, placide onde toccavano la riva.

Lo attendeva seduta presso la fontana; il riverbero della luce sull’acqua tingeva di un argento vivo e acquoso il fulgore dei capelli ed il viso ovale, come una medaglia di velluto bianco. Portava un vezzo di perle e argento a trattenere pigramente la capigliatura lussureggiante. Lo guardò dritto negli occhi, serena.

–    Merlino.

–    Sono arrivato, Viviana.

Viviana si alzò lentamente, quasi con pigrizia. I suoi movimenti lenti, voluttuosi, ben si adattavano alla sua veste, di uno strano tessuto traslucido, a pieghe fitte e morbide.  Un fiore gocciante rugiada dolcissima, offerto alla mano, dal cuore elusivo…

Lei si lasciò osservare senza alcuna reazione apparente. Poi gli sorrise lieve lieve, lo prese per mano e disse:

–    Vieni con me.

Le sale della sua dimora erano tutte bianche e ariose; vi aleggiava una luce perenne e fiori bianchi – gigli e mughetti e schive rose selvatiche – si confondevano sui marmi bianchi, ed emettevano un debole, sfuggente sentore di bosco. Merlino si distese sui bianchi damaschi che coprivano bianchi giacigli, unica macchia scura in tutto quel candore.

Viviana versava liquori limpidi da bottiglie d’argento e cristallo, ed il rumore del liquido si sentiva appena. Echi di fontane giocose, il balzo e la caduta di acque sottili arrivavano a tratti.
Viviana sollevò una coppa e, guardando Merlino, bevve qualche sorso.  I suoi occhi, da sopra l’orlo, non lo lasciarono mai. Poi gliela porse e mormorò:

–    Bevi, mio signore.

E Merlino bevve quel liquore giallo oro, fresco e dolce, con un leggero gusto asprigno come le pesche d’agosto. Amava quel rituale che Viviana seguiva ogni volta – l’attesa alla fontana, l’invito, l’offerta della coppa dalla quale aveva bevuto lei – e che tuttavia era ogni volta diverso per qualche particolare minuto. Le rese la coppa e attese.

Viviana gli sedette accanto e sfiorò con un dito le rughe che gli costellavano gli occhi, poi chinò il viso lentamente, senza esitare, e lo baciò sulle labbra con le sue labbra rosse, ancora umide del liquido bevuto. Le ciglia gli sfiorarono la guancia.

Eglì avvertì il sapore del melograno, l’asprezza dei denti, il muschio della bocca e assaporò con voluttà, senza fretta. Le sue mani salirono a esplorare delicatamente l’acconciatura di perle. Viviana si ritrasse un poco e mormorò, posando una mano sul suo petto:

–    Sei felice, mio signore?

Lo accarezzava lievemente, senza fermare la mano, una carezza che fermava il flusso dei suoi pensieri e li imprigionava nel puro sentire.  Ruscellava, dalla sua mano, dal tepore della sua vicinanza, una delizia senza parole, un’ebbrezza mai conosciuta.

– Come non esserlo…e tu, Viviana? Sei felice tu?

Lei si inarcò, flessibile come un ramo di mimosa, alla carezza che Merlino le rese sulla pelle lattea della gola e del collo. Lo guardò con gli occhi semichiusi, in  cui il piacere brillava piano:

– Molto felice.

Poi si allontanò impercettibilmente, trattenne il respiro e gli ripetè la domanda che ogni volta non mancava di fargli – aveva un’espressione quasi rapace, in quell’istante, improvvisamente ieratica e terribile:

– Vuoi restare qui con me per sempre?

Merlino le sorrise e si preparò a rispondere, come sempre faceva, “Per sempre, Viviana? Ecco una parola poco saggia, e così umana…perché usare la parola sempre?” e a scorgere l’incontrollato tremolìo del labbro di lei, e a udire il sospiro, rassegnato ma non domo, che Viviana emetteva prima di sciogliere con le lunghe dita il nodo della cintura, e di giacere con lui in un’estasi rarefatta che le inumidiva gli occhi di piccole stelle.

Invece, sentì farsi più acuto e inebriante l’odore delle rose bianche, e udì con stupore la propria voce rispondere:

– Si, Viviana, voglio restare qui, con te, per sempre.

Per un attimo sentì il tempo fermarsi nel proprio petto. Poi Viviana balzò in piedi e danzò di gioia, rapita, sui pavimenti lucidi che riflettevano la sua figura; ruotava su se stessa, avvolta nei suoi capelli, in una risata appagata. Merlino la guardava con stupore, senza capire.

Lei si fermò all’improvviso, interrompendo una piroetta e gli chiese:

– Davvero, Merlino? Hai detto la verità? Resterai qui con me?

E di nuovo Merlino rispose, senza comprendersi:

– Si, Viviana, per sempre.

Lei allora lo guardò negli occhi e rise, e la risata le palpitava in gola; negli occhi brillavano il trionfo e l’incanto. Allora Merlino ricordò.

L’aveva sognata, la notte precedente, come spesso avveniva: Viviana che saliva silenziosa attraverso il bosco fino alla sua grotta, mentre anche gli uccelli tacevano. Aveva creduto di vederla, come un riflesso di luce bianca contro il cielo; senza alzare le palpebre, ne aveva osservato il volto deciso e gli occhi sfavillanti. Silenziosa come la nebbia, si era avvicinata ed egli aveva avvertito l’ansimare del suo cuore. Poi le mani di Viviana sospese su di lui avevano tracciato gesti fluidi, soavi come i suoi baci e la sua voce aveva sussurrato senza interrompersi, senza esitare, parole antiche e feroci.

…e ancora, all’improvviso, il ricordo di un giorno di sole e nuvole; sotto i cespugli, l’odore della pioggia in arrivo. Un silenzio denso come latte in ciotole di legno, ed un canto appena accennato che esalava dalle labbra di Viviana.

– Merlino…

– Dimmi, Viviana.

– Merlino, vorrei che tu facessi qualcosa per me.

– Cosa desideri?

– Desidero che tu m’insegni un incantesimo. – le guance si erano improvvisamente colorite, ricordò ancora ammirato. Gli occhi in ombra brillavano come stagni nascosti.

– Un incantesimo?

– Un incantesimo…che mi permetta di controllare la mente dell’uomo, di piegarla come lo stelo di una margherita. Bada che non voglio uccidere un’anima…vorrei legarla a me.

Egli l’aveva osservata in silenzio, un lieve brivido – d’eccitazione? di paura? o era il puro piacere della sfida? – sulla fronte. Non le aveva chiesto perchè mai desiderasse conoscere quell’incantesimo. Gliel’aveva insegnato e lei, felice, aveva suonato l’arpa e cantato per lui finché non aveva cominciato a piovere e si erano rifugiati nella sua casa. Ricordava ancora…i capelli umidi e la pelle più fresca del solito…

Nella grotta, la notte prima, aveva sorriso rapidamente, uno scintillìo di denti giovani e avidi prima di svanire tra gli alberi muti.

Ora Merlino seppe, davanti a quegli occhi di fulgido trionfo, di non aver sognato. E sorrise ancora, di sé e del proprio stupore.

Tese una mano e Viviana la raccolse fra le sue; lo guardò, all’improvviso indifesa, un ardore segreto alla soglia dello sguardo, e disse:

– Lo vedi? L’attesa è finita. Ora ci aspettano solo giorni perfetti.

Merlino rimase immobile, gli occhi fissi su un riflesso, una libellula di sole che tremava contro il muro. Respirava piano e l’odore dei fiori e dell’acqua mai gli era parso così doloroso e irrinunciabile.

Post a Comment

Your email is never published nor shared. Required fields are marked *